Mulè: Taglia sui malviventi, ecco perché vince la Lega
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Mulè: Taglia sui malviventi, ecco perché vince la Lega

«Ades basta! Ga’ n’ho pieni i bal». Flavio Tremolada fa l’assessore alla Sicurezza a Lesmo, in provincia di Monza. È un leghista. La frase in dialetto (la traduzione è venuta facile perfino a me che sono siciliano) l’ha scandita quando gli hanno comunicato che dieci garage del suo comune erano stati ripuliti dai ladri. Il suo stato collerico è tracimato nella colorita espressione di cui sopra dopo una lunga serie di rapine a farmacie, banche, tabaccai della zona. Tremolada ha quindi tirato fuori un vecchio pallino del Carroccio: l’istituzione di una taglia sui malviventi da finanziare col suo stipendio e con quello degli altri componenti leghisti della giunta. Folclore, si dirà, probabilmente a ragione. Si sa che con le taglie non si va lontano. Tremolada incarna e interpreta però i sentimenti della gente e il suo gesto spiega meglio di ogni altra arguta e arzigogolata analisi il successo della Lega: l’assessore parla il loro linguaggio, si ribella, è disposto a forzare le leggi pur di risolvere un problema.

A Roma, il padano ministro dell’Interno Roberto Maroni traduce il tutto in termini rigorosamente istituzionali, mette un vestito buono all’espressione di Tremolada e ragiona: bisogna smetterla con l’utopia dell’obbligatorietà dell’azione penale, i procuratori stabiliscano la gerarchia dei reati da perseguire mettendo in cima alla lista quelli che provocano più allarme sociale. Quando Maroni sostiene che «i procuratori», cioè i capi delle singole procure su base locale, stilino la lista dei reati sui quali impegnarsi con priorità assoluta, altro non fa che ipotizzare una sorta di federalismo giudiziario. Non dice affatto una corbelleria. Perché, banalmente, a Catania le priorità saranno diverse da quelle di Busto Arsizio.

La più autorevole conferma arriva rileggendo l’ultima relazione del procuratore generale della Cassazione. Il quale, dopo aver messo in croce le inefficienze e le differenze nell’amministrazione della giustizia tra Nord e Sud, riflette: «Siffatte difformità, a parità di regole processuali e ordinamentali, sono inaccettabili e impongono misure adeguate, in grado di riequilibrare concretamente le disuguaglianze. Forse più che cercare soluzioni nell’ennesima novella di regole processuali od ordinamentali, rigidamente omogenee per tutte le situazioni, occorrerebbe costruire modelli flessibili, che possano adattarsi alle diverse esigenze del territorio». Ed ecco la chiave di volta: «Il modello culturale della legge sul federalismo fiscale, più volte riconosciuto dal capo dello Stato, potrebbe indurre a pensare di adottarlo – con gli opportuni adattamenti – non soltanto per le regioni ma anche per gli uffici giudiziari statali».

Non c’è molto altro da aggiungere. Basterà un concetto, contenuto sempre nella stessa relazione: «Nessun intervento di riorganizzazione della giustizia appare credibile se si concentra solo sulla massa di processi esistente e non si fa carico di porre filtri – equi ed efficaci – ai nuovi accessi». Si vada dunque avanti e celermente con la riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale.

I «bal» girano ovunque, non solo a Lesmo.

Il videocommento del direttore

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